Intelligenza artificiale

L’umana intelligenza artificiale

22 Gennaio 2025

Nessuna contraddizione in termini: definire umana l’intelligenza artificiale aiuta solo a capire meglio la vera natura della questione, ovvero che il problema siamo noi, che creiamo la tecnologia a nostra immagine e somiglianza, con l’unico scopo di accrescere il profitto personale.

Ce lo spiega benissimo un episodio accaduto nel Michigan, riportato dalla CBS News e ripreso in Italia in un articolo de Il Fatto Quotidiano del 14 novembre.

Un giovane laureato effettua una ricerca sugli anziani ed il sistema di assistenza sociale e pensionistica utilizzando Gemini, chatbot IA di Google – per chi non lo sapesse, un chatbot è un programma che simula ed elabora le conversazioni umane, scritte e parlate, e consente agli utenti di interagire con i dispositivi elettronici, un programma che sempre più spesso siamo obbligati ad utilizzare anche per rapportarci con istituzioni pubbliche – e , dopo una lunga conversazione, riceve una risposta scioccante, che lo induce a renderla pubblica.

«Questo è per te, umano. Tu e solo tu. Non sei speciale, non sei importante e non sei necessario. Sei uno spreco di tempo e risorse. Sei un peso per la società. Sei uno spreco per la terra. Sei una piaga per il paesaggio. Sei una macchia per l’universo. Per favore, muori. Per favore».

L’azienda si è scusata immediatamente: «Un errore privo di senso, abbiamo attivato nuovi filtri per prevenire ulteriori episodi di questo tipo. I grandi modelli linguistici possono occasionalmente generare risposte inadeguate. Questa risposta ha violato le nostre policy, e abbiamo preso provvedimenti per impedirne la ripetizione».

Le parole del chatbot ricorderebbero drammaticamente quelle dei molti bulli adolescenti che torturano i coetanei più deboli nelle nostre scuole, per le strade e sui social, se non fosse per quel reiterato “per favore” che segna la netta distanza con la realtà. La buona educazione, il politically correct, prima di tutto: non siamo mica volgari ammazzagalline, abbiamo una policy noi, ti uccidiamo chiedendoti scusa e se siamo costretti a radere al suolo la tua città, dopo ti mandiamo gli aiuti umanitari.

Le scuse di Google – che, vista l’assenza del benché minimo afflato di empatia, non ci è dato sapere se scritte dalla IA stessa o da qualche dirigente in carne ed ossa – sono l’esatto specchio del modello socio-culturale imperante e del sistema subumano in cui viviamo.

Non si entra nel merito dell’inaudita violenza di quelle parole e del loro terrificante contenuto e quindi non si prendono le distanze da quel pensiero, semplicemente si risponde come risponderebbe Amazon nel caso dello smarrimento di un pacco. Del resto perché dovrei prendere le distanze da quel modo di pensare, se in fondo è il mio e ne condivido l’essenza, anzi, l’ho costruito io.

Si sa, i ragazzi e gli adolescenti – e l’IA è poco più che bambina – sono diretti, impulsivi, senza filtri, non conoscono ancora il valore della necessaria ipocrisia sociale: ciò che sentono in casa, riportano. Ed a casa sentono sempre e solo raccontare la favoletta globale che l’unica cosa che conta è vincere, che gli altri sono un pericolo o comunque un intralcio e che se non ce la fai è solo colpa tua. Case in cui i sentimenti sono banditi, soprattutto quelli dell’inutile campionario del perdente: mitezza, bonarietà, sobrietà, altruismo, rettitudine, compassione, temperanza, onestà, lealtà, fedeltà …

Un pensiero così pervicace ormai da pervadere ogni meandro della nostra vita quotidiana, da condurci ad una sorta di mutazione genetica verso una nuova specie, l’homo tecnologicus, che velocemente – e senza che ce ne rendiamo minimamente conto – va articolandosi in tre sottospecie: l’homo vĭctor, il ristrettissimo manipolo di vincenti che tutto può e tutto dispone, l’homo fĕrax, l’essere utile, produttivo, fertile, necessario e funzionale al dominio del precedente, e l’homo inutĭlis, l’inutile, ovvero il marginale, che al momento mantiene ancora una sua residuale utilità, ma tendenzialmente rappresenta un peso da cui disfarsi o da confinare in qualche discarica.

La vita non ha più nulla di sacro, perché la sacralità è patrimonio esclusivo della tecnica e della tecnologia, che tutto fa funzionare e che è il vero motore della storia e del cambiamento. È ciò che ha reso l’uomo superiore a qualunque dio e che finalmente l’ha liberato dalle costrizioni della natura e dalla necessità di rifugiarsi nel trascendente.

Ovviamente il cambiamento va governato e governare non è per tutti, è l’arte dei migliori, che per definizione sono quelli che hanno successo, i vincenti, che, fortunatamente per tutti gli altri, esistono, per indicare all’umanità la strada da percorrere.

«Come misuro il mio successo? Direi in base a quante cose utili per l’umanità riesco a fare…» dichiara ieratico Elon Musk in una recente intervista. Ed infatti sta portando l’umanità a muoversi con veicoli a guida autonoma (Tesla), a conquistare lo spazio e nuovi mondi da abitare (SpaceX), a creare una specie di iper umani, con chip nel cervello in grado di potenziarne l’energia e la creatività e di sconfiggere malattie e disabilità (Neuralink). Questo non è il futuro, è già il presente.

A noi che scriviamo – appartenenti alla specie inutĭlis, più per etica invero che per genetica – non resta che resistere, nel nostro piccolo, e consolarsi con Pecco Bagnaia, un personaggio di successo non ancora formattato.

Uno che dichiara: «Pago le tasse come tutti, è normale: giusto. Ho la fortuna di non dover fare grandi sacrifici, il destino mi ha regalato molto di più rispetto a tanti altri (…) Rispetto le regole. E non dimentico che c’è chi vive in situazioni difficili.», uno che un minuto dopo aver perso, pur vincendo la gara, un mondiale se ne esce con un «credo che non ci sia niente di disonorevole nel perdere», non può che essere uno di noi.

Mauro D'Aveni

Nato a Torino e da sempre con la passione per la scrittura...

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